Il domicilio (art. 43, comma 1 c.c.) è cosa diversa dalla residenza (art. 43, comma 2 c.c.). Solamente la residenza ha a che fare con la dimora abituale di una persona (cioè, il luogo dove "vive effettivamente"). Il domicilio a nulla rileva. Ed è evidente che se una persona lavora a 260 km di distanza dal luogo dove risulta anagraficamente iscritta, non ha la residenza in quel luogo. Ergo il CAF ha calcolato correttamente l'imposta dovuta, in base ai dati che evidentemente l'interessato stesso ha fornito. Risparmiando all'interessato le sanzioni per l'insufficiente versamento dell'imposta.
Che "non esista obbligo di cambio residenza per un lavoratore" è solo una errata convinzione. A parte la confusione tra "residenza" (dato di fatto) e "iscrizione anagrafica", che è la necessaria conseguenza a tale situazione di fatto.
E a parte l'errata convinzione che occorra "per legge 6 SEI mesi di assenza consecutiva dall'abitazione dove si risulta residente" per la conclusione del procedimento di irreperibilità anagrafica. Tale procedimento, infatti, deve protrarsi per almeno 12 mesi, con ripetuti accertamenti opportunamente intervallati.
E in ogni caso, qui non vi è nessuna "irreperibilità", dato che l'effettiva dimora abituale è nota. L'ufficiale d'anagrafe del comune di attuale iscrizione, ex art. 16 del D.P.R. n. 223/1989, deve soltanto darne notizia al collega del comune di "attuale" residenza, per i conseguenti provvedimenti di sua competenza.