La giurisprudenza nell’ultimo ventennio, superate alcune isolate eccezioni, ritiene che per essere secundum legem (artt.32 e 79 legge 392/1978), tale clausola convenzionale debba soddisfare due fondamentali condizioni: che la variazione sia collegata in modo chiaro e non equivoco a elementi predeterminati e desumibili dal contratto e che la clausola non sia strumento per eludere il disposto dell’art.32 della legge citata, vale a dire l’aggiornamento del canone.
Alla luce di quanto detto, una previsione programmata a monte di un aumento del canone (che non va confusa con l’aggiornamento del canone) non si tramuta in una elusione né dell’art.32 né tantomeno dell’art.79.
Se le parti sono libere di fissare un canone di qualsivoglia importo, non si vede perché non possano modularlo in aumento nell’arco del rapporto. D’altronde è lo stesso art.32 che parla di “canone nelle misure contrattualmente stabilite”, lasciando intendere, con l’utilizzo del plurale, che tali misure possono essere sin dall’inizio differenti.
Ai fini tributari, il canone in aumento per favorire l’avvio in loco dell’impresa del conduttore non dimostra alcuna evasione fiscale. Non basta un canone iniziale ridotto per tassare presunti canoni “in natura”.
Un maggior reddito imponibile potrebbe essere contestato dalle Entrate solo qualora la causa giustificativa dell’aumento del canone sia legata a specifici lavori di ristrutturazione eseguiti dal conduttore a beneficio della proprietà, ma se di ciò non è data evidenza nel contratto (si ricorda che in telematico, in presenza dei codici 1 e 3 = canoni crescenti o decrescenti nella casella “Casi particolari” del quadro A del nuovo mod. RLI, copia dello stesso deve essere allegata al modello di registrazione), l’eventuale avviso delle Entrate ha le polveri bagnate, tanto più se, come osservato qualche tempo fa dalla Ctr del Lazio, i locali erano già perfettamente agibili al momento della loro consegna.