Antonio Azzaretto

Membro dello Staff
Supponiamo che io abbia in tasca un sacchetto di caramelle (il valore "reale" dell' economia), e ne voglia avere il più possibile perchè per definizione sono "egoista".

Allora io, che sono soggetto "A", "presto" la quantità di moneta corrispondente al valore di mercato del mio sacchetto di caramelle al soggetto "B", perchè questo mi promette sia il rimborso del capitale, sia il pagamento di una quantità di moneta come interesse sul prestito.

Pertanto io (soggetto "A"), resto con le mie caramelle, e "in più", con un foglio di carta in cui è scritta la "promessa" che il debitore (soggetto "B"), in futuro mi restituirà il valore che gli ho prestato maggiorato degli interessi.

Siccome sono molto egoista e voglio guadagnare "di più", allora suddivido il mio credito (ossia il valore di tutte le caramelle che il debitore sarà "costretto" a procurarsi e rivendere sul mercato al fine di rimborsare il suo debito nei miei confronti), in dieci obbligazioni di valore uguale, e lo "rivendo" sul mercato che, in cambio, mi restituisce "subito" la quantità di moneta che ho prestato al soggetto "B", corrispondente al valore di mercato del sacchetto di caramelle che avevo all' inizio.

Pertanto io (soggetto "A"), senza aspettare la scadenza concordata con il soggetto "B", ho la possibilità di "prestare" il valore di mercato dell' unico sacchetto di caramelle che ho in tasca "di nuovo"!

E' evidente che, in questa situazione di continua "creazione" di valore "promesso" dai debitori, le banche centrali di emissione dovranno stampare sempre più "moneta" da "pompare" nel sistema (ossia "fotografie" che rappresentano il valore attribuito al sacchetto di caramelle che avevo all' inizio incrementato da tutto il valore "promesso" dai debitori, i quali "si suppone" creeranno nuove "caramelle" che, nel momento in cui saranno vendute e comprate, contribuiranno alla crescita del PIL- ossia il Prodotto Interno Lordo).

La creazione continua di nuova "moneta" da parte delle banche centrali, è necessaria per alimentare questo "meccanismo"; ossia per permettere a "tutti" gli operatori del mercato di continuare a comprare e vendere sia il mio sacchetto di caramelle, sia gli "altri" sacchetti di caramelle che si dovranno "inventare" necessariamente per pagare i capitali dati in prestito e gli interessi concordati.

E' in questo modo che il sistema capitalista si è sviluppato fino ad oggi, ed intende continuare a crescere in futuro!

Nel "gioco" tutti ci guadagneranno, fino a che io, soggetto "A", (che resto una persona incredibilmente egoista), non riuscirò più a "piazzare" l' ultimo pezzo di carta (l' ultima obbligazione), perchè l' ultimo mio creditore dubiterà che io avrò caramelle sufficienti da garantirgli la restituzione della moneta che sto chiedendo in prestito; ma proprio "quella" moneta mi è necessaria per pagare, a mia volta, tutta la moneta che mi hanno prestato, al fine di "creare" il valore che ho "prestato" ai miei debitori, e che "spero" mi verrà restituito alla scadenza con gli interessi.

Pertanto, a "quel" punto, alle scadenze prossime dei "miei" debiti, io non avrò la quantità di moneta sufficiente per pagarli, e tutto il castello di "fiducia" che sostiene i mercati finanziari a "quel" punto crollerà, fino a che si riuscirà a capire "di nuovo" quale sia il valore "reale" dei sacchetti di caramelle che "effettivamente" sussistono nel mercato.

:fico:
 

Antonio Azzaretto

Membro dello Staff
La tolleranza al rischio, semplicemente, evapora

Cari amici,

I mercati finanziari sono dominati dall' egoismo e dall' indifferenza.

Il movimento degli operatori è motivato dalla ricerca di profitti immateriali, ossia non legati all' economia reale.

E' importante ricordare molto bene che i responsabili dell' andamento delle quotazioni di borsa internazionali sono pochissimi, in confronto di tutti coloro che partecipano direttamente o indirettamente al processo produttivo della ricchezza mondiale.

Si può benissimo parlare di oligarchia finanziaria inconsapevole, in quanto gli operatori di borsa raramente pensano loro stessi come "casta" che sfrutta le logiche finanziare per dominare l' economia mondiale.

Questa situazione, al giorno d' oggi, si può scoprire con facilità, perchè gli operatori finanziari sono diventati allergici al rischio che deriva dallo svolgimento della loro attività.

Il periodo delle vacche grasse per loro è finito, però loro non vogliono accettarlo.

Visto dall' ottica dell' economia reale, il debito che è stato creato dai processi finanziari degli ultimi 20 anni è divenuto insostenibile, e quindi virtualmente inesigibile.

Gli USA, la Grecia, la Spagna, e gli altri paesi più indebitati del mondo non hanno la possibilità di rimborsare i propri debiti che hanno contratto nei confronti dei mercati finanziari.

Le banche centrali di tutto il mondo non potranno continuare a stampare moneta senza alcun riferimento oggettivo sulle attività economiche reali.

Prima o poi questa situazione arriverà ad un punto di rottura, e si verificherà un' inflazione galoppante globale (dal dollaro all' Euro), che riporterà i debiti in una giusta prospettiva di riferimento con l' economia reale.

Detto in termini più semplici, i debiti pubblici dei paesi indebitati, a seguito dell' inflazione, si ridurranno di conseguenza, e ritorneranno ad essere proporzionali all' economia reale delle società che questi debiti li devono pagare.

Resta da domandarsi perchè le società che non hanno creato i debiti, se li ritrovano lo stesso pesantemente addosso.

....ma questa è un altra storia!




Wall Street Italia

Confortati in qualche modo dalla chiusura al rialzo che Wall Street è riuscita ad archiviare lo scorso venerdì, i listini azionari europei hanno avviato la settimana tentando la strada dei guadagni.

Ma l'incertezza è palpabile e nessuno si fa false illusioni.

A dimostrare il forte momento di tensione che attanaglia gli investitori di tutto il mondo non sono infatti solo la turbolenza e la volatilità che assillano i listini azionari e il mercato dei cambi. Indicazioni più che chiare del brutto momento che il sentiment in generale sta vivendo arrivano infatti - e come poteva essere altrimenti - anche dal mercato del credito.

Tali indicazioni sono decisamente negative, come fa notare Bloomberg in un suo articolo.

Basti pensare che, molto probabilmente, le vendite dei corporate bond chiuderanno il mese di maggio con la peggiore performance in un decennio; e che i rendimenti relativi stanno balzando al ritmo più elevato dai tempi - e la sola parola fa accapponare decisamente la pelle - del collasso di Lehman Brothers.

Il motivo alla base di questa situazione è il solito e porta il nome di crisi di fiducia o di avversione al rischio.

In un contesto in cui si parla ogni giorno dei debiti europei e in cui a essere agitato ovunque è lo spettro dei Piigs, la fiducia degli investitori non riesce, infatti, a imporsi con convinzione.

I dati di Bloomberg indicano così che le stesse società hanno emesso nel mese di maggio obbligazioni per un valore di 47 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 183 miliardi di dollari di aprile e al minimo dal dicembre del 1999.

Contemporaneamente, l'indice Global Broad Market compilato da Bank of America Merrill Lynch, segnala come la fiducia dei potenziali sottoscrittori di bond è talmente malconcia che il rendimento extra che viene assicurato ai detentori dei bond - ovvero il differenziale in più rispetto ai rendimenti dei titoli di stato - si appresta a registrare la crescita maggiore dall'ottobre del 2008. (appunto, i tempi del crollo di Lehman).

I numeri parlano chiaro.

L'indice mostra che, al momento, i rendimenti sui corporate bond si attestano in media a un valore superiore di 188 punti base rispetto ai rendimenti assicurati dai titoli di stato; il differenziale è dunque cresciuto in modo sostenuto dai 142 punti base toccati lo scorso 21 aprile, e la velocità del rialzo è stata per l'appunto la più elevata dall'ottobre del 2008 (quando l'incremento fu di ben 108 punti base).

A essere più penalizzati, continua Bloomberg, sono soprattutto i junk bond emessi negli Stati Uniti: in questo caso gli spread sono arrivati a salire questo mese di 141 punti base fino a quota 702.

William Cunningham, responsabile delle strategie del credito e della divisione di ricerca dell'unità di investimento di State Street a Boston, parla così in una intervista a Bloomberg di una "crisi di liquidità" e continua: "Non è inconcepibile immaginare una situazione in cui i mercati si comportano in questo modo, in cui a essere sotto pressione è la liquidità e in cui la tolleranza al rischio, semplicemente, evapora, soprattutto in Europa".

Gli fa eco Peter Chatwell, strategist dei tassi di interesse di Credit Agricole Corporate and Investment Bank di Londra. "Stiamo assistendo a una intensificazione dell'avversione al rischio e anche a un allargamento dell'avversione al rischio nelle varie categorie di asset".

E uno specchio di tutto ciò è lo stesso Libor per i prestiti in dollari a tre mesi che, lo scorso 21 maggio, ha testato il massimo dal 24 luglio. Un record che conferma la nuova riluttanza delle banche a erogare prestiti.
Pubblicato da grandeindio a lunedì, maggio 24, 2010 su Buone parole (Progetti di Economia Relazionale)
 

Antonio Azzaretto

Membro dello Staff
Finanza pubblica e privata, due punti di vista inconciliabili


Cari amici,

Anche oggi prosegue l' "assalto alla diligenza", che i grandi gruppi finanziari privati stanno scatenando contro le finanze pubbliche dei paesi più indebitati.

Non lo fanno apposta!

Il punto della questione è che sono avidi, e si comportano in modo economicamente efficiente.

Ossia gli operatori finanziari cercano di ridurre le proprie perdite e incrementare i propri utili.

Questo comportamento è estremizzato a tutti i livelli; i più ricchi estremizzano la loro ricchezza allo stesso modo della gente cosiddetta "normale".

Gli stati, i quali dovrebbero calmierare questa tendenza alla sopraffazione, negli ultimi anni si sono piegati anche loro alla logica finanziaria dominante.

E così siamo tutti saliti su una barca (il mercato globale) che ha perduto il timone della Governance.

Siamo arrivati al punto in cui siamo costretti a prendere consapevolezza della situazione.

I governi mondiali sono eccessivamente indebitati nei confronti di un sistema finanziario che non ha più un equilibrio economico di riferimento, e produce valore finanziario in modo incontrollato e incontrollabile.

A questo punto, la logica di mercato attuale porterà in breve tempo ad una inflazione galoppante, che a sua volta porterà ad un aumento incontrollato del valore attribuito alle materie prime (e soprattutto del petrolio), e pertanto, non appena il mondo inizierà nuovamente a "crescere" (come raccontano i cosiddetti economisti), una nuova frenata arriverà puntuale come un orologio causata dal prezzo del greggio che diventerà insostenibile.

I nostri politicanti non sanno nulla di questi fenomeni, e non credo che gliene importi neanche tanto!

Molti di loro sono come tantissimi amministratori di condominio; ossia impegnati soprattutto a mantenere la propria poltrona.

Pubblicato da grandeindio su Buone parole (Progetti di Economia Relazionale)

Il sole 24 ore

Che i mercati abbiano i nervi tesi a volte lo si capisce anche dalle piccole cose. Il salvataggio di Cajasur, per esempio, non sarebbe di per sé evento da spaventare la finanza mondiale: in fondo gli asset della piccola cassa di risparmio andalusa ammonterebbero soltanto allo 0,6% dell'intero sistema bancario spagnolo, quindi poco più di una goccia nell'oceano finanziario mondiale. Eppure i contraccolpi dell'operazione condotta sabato dalla Banca di Spagna non hanno mancato di farsi sentire, anche perché si teme che il caso Cajasur non sia proprio isolato.

Così l'euro ha interrotto la serie di due sedute di recupero consecutive, evento più unico che raro in questo ultimo mese. Questa mattina la valuta comune è scesa sotto 1,23 dollari all'avvio dei mercati europei. Contro lo yen un vero tracollo: a Tokyo l'euro è precipitato a quota 109.99, per la prima volta sotto quota 110 dal 30 novembre 2001 (109,89). Questo dopo i cali di ieri: la valuta comune ha infatti ripiegato sotto quota 1,24 dollari (1,2380), oltre due «figure» in meno rispetto ai massimi di seduta di venerdì scorso e perso terreno anche sulle altre valute, scendendo di nuovo a 111,89 yen (da 113,16) e 1,4351 franchi svizzeri (1,4430). Non che il movimento fosse del tutto inaspettato, visto che a detta degli operatori il recupero dei giorni scorsi era dovuto più che altro all'effetto deterrente esercitato sui ribassisti dalle voci (mai confermate e per certi versi pure improbabili) di un intervento della Bce a sostegno dell'euro. Ma appare comunque evidente che il caso Cajasur (oltre alla giornata semifestiva, che ha contribuito a ridurre i volumi) abbia dato agli investitori un motivo in più per tornare a vendere la divisa europea.

Quando si parla di tensioni, però, gli operatori guardano sempre con maggior attenzione a un altro mercato, quello interbancario in cui gli istituti di credito si scambiano il denaro. Anche qui la situazione è mutata a partire dai primi giorni di aprile quando, dopo un anno e mezzo di discesa pressoché ininterrotta, i tassi hanno iniziato a risalire dai minimi storici. Per ora si tratta di ben poca cosa: l'Euribor a un mese veniva indicato ieri allo 0,426% (lo stesso valore di venerdì e tre centesimi in più rispetto ai minimi storici) e la scadenza 3 mesi allo 0,695% (0,634% il record).

Ma in un mercato in cui tutto si misura con il bilancino gli analisti guardano con un sospetto anche un altro valore: lo scarto fra l'Euribor 3 mesi e l'overnight indexed swap (Ois), il tasso «free risk». Anche in questo caso il differenziale è aumentato (31 punti base rispetto ai 22 di qualche settimana fa) e testimonia la minor fiducia tra le banche stesse, che in una situazione di incertezza generale (e qui il caso Cajasur non contribuisce certo a rasserenare gli animi) non sempre sono disposte a prestarsi il denaro e anzi preferiscono lasciarlo in deposito presso la Bce stessa al tasso decisamente poco attraente dello 0,25 per cento.
Ogni paragone con le settimane successive al crack-Lehman, quando l'interbancario era praticamente «congelato» è tuttavia per il momento del tutto improprio. Non solo in quei giorni i tassi Euribor viaggiavano oltre il 5% e lo spread con gli Ois era salito a 180 punti base, ma mancavano anche tutte le misure che nel frattempo la Bce ha messo e continua tuttora a mettere in atto per garantire la liquidità necessaria al funzionamento degli ingranaggi. Proprio nell'ultima asta di rifinanziamento a 8 giorni sono state però 81 le banche ad attingere alla fonte di Francoforte chiedendo 104 miliardi di euro (5 in più della settimana precedente), a testimonianza del fatto che qua e là esiste qualche granello che per ora scorre via, ma che alla lunga potrebbe anche inceppare l'ingranaggio.

Da tempo ormai gli operatori segnalano del resto un mercato interbancario che funziona a due velocità: le grandi banche non trovano problemi a finanziarsi, mentre le piccole (o quelle meno solide) hanno qualche difficoltà e mettono apprensione. Qualche preoccupazione in più, inoltre, gli istituti la hanno quando chiedono dollari, anziché euro. Non a caso le recenti tensioni si sono fatte sentire soprattutto sul Libor in dollari (il «cugino» dell'Euribor, calcolato dalla British Bankers' Association) che ieri, nella scadenza a 3 mesi, è salito oltre quota 0,50% (0,5097%) per la prima volta dal luglio 2009, raddoppiando così il valore rispetto a due mesi fa.

Ed è soprattutto per cercare di alleviare queste difficoltà che la Bce ha ripristinato due settimane fa le aste in dollari. Nelle prime due operazioni di questo tipo non si è però vista la ressa che molti attendevano: finora sono stati assegnati poco più di 10 miliardi di dollari a non più di 8 istituti per volta. Forse la ricerca di fondi di finanziamento non è soltanto un problema delle banche europee.


Wall Street Italia

C'è panico puro a Piazza Affari questa mattina. E il risveglio oggi non è per nulla confortante neanche per i mercati europei, che hanno avviato le contrattazioni in pesante ribasso, per i timori di un allargamento della crisi che imperversa in Europa.

L'indice Ftse Mib lascia sul terreno il 3,30%, attaccato dall'ondata di vendite che prende di mira soprattutto le banche: queste ultime scontano sia la crisi internazionale che il rapporto dell'ABI sul settore, pubblicato la vigilia.

Il quadro fornito dall'Associazione Bancaria Italiana non è infatti di certo roseo ed evidenzia un massiccio calo degli utili nel 2009 che è andato aggravandosi nel primo trimestre di quest'anno.

Il 2010 sarà dunque un'altro anno difficile, secondo quanto confermato dal Direttore Generale Giovanni Sabatini. Fra i titoli più sacrificati nella seduta di oggi appaiono così Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banco Popolare. Nel risparmio gestito soffre Azimut.

Ma a Piazza Affari la doccia è gelata anche per gli oil, che scontano la caduta delle quotazioni del greggio. Eni, Tenaris e Saipem evidenziano performance pessime, mentre tiene meglio la raffinazione con la ERG.

In generale, in tutta l'Europa, i mercati seguono la scia negativa disegnata prima da Wall Street e poi dai listini asiatici, in primis da Tokyo, che è scivolata sotto la soglia dei 9.500 punti per la prima volta in sei mesi.

Ad appesantire i listini azionari globali, è stata di nuovo la carrellata di notizie negative che continuano ad attanagliare l'euro.

La moneta unica è tornata infatti a perdere terreno nelle ultime ore contro le valute cosiddette rifugio - come il dollaro - e il trend appare nuovamente al ribasso, dopo il recupero registrato nel finire della scorsa settimana.

La valuta sconta di fatto, oltre al problema dei debiti Ue, anche lo spettro dei salvataggi bancari.

Ad alimentare ancora di più le paure degli investitori sono poi i piani di austerity di Germania e Gran Bretagna, che ieri hanno tenuto banco dopo quelli che nei giorni scorsi avevano visto come protagonisti Grecia, Portogallo e Spagna.

L'aria di crisi si respira insomma sia sui mercati azionari globali che su quelli valutari.

La stessa Wall Street ha accentuato ieri le perdite nel finale, con il Dow Jones che si e' riavvicinato a quota 10000, attestandosi ai livelli minimi di 3 mesi, in piena zona "correzione".

Da segnalare, infine, che il sell off scatenato dall'effetto euro è provocato anche da quelle notizie che confermano come i fondi hedge continuino ad attaccare la moneta unica: alcuni di loro, tra cui Hayman Advisers e Matrix Group, prevedono addirittura un aggravamento della crisi del debito sovrano, nonostante il piano di salvataggio messo a punto dall'Unione Europea e dalla BCE, per un valore di un trilione di dollari.
 

Antonio Azzaretto

Membro dello Staff
I mercati sono volubili come le belle donne

Cari amici,

Gli operatori dei mercati finanziari in questo periodo sono volubili come le belle donne.

E' incredibile constatare come il nostro tenore di vita sia attaccato a valutazioni statistiche del cosiddetto "sentiment", ossia dello spirito positivo che spinge la gente a investire nel futuro.

Siamo tutti nelle mani dei baroni della finanza, ed io non so se ci stiamo incamminando verso una strada di inflazione o di deflazione.

Certo è che i valori finanziari hanno perso ogni riferimento logico con l' economia reale, e ormai viaggiano su parametri speculativi che poco hanno a che fare con la vita della gente.

Ho il sospetto che siamo alla fine di un epoca di falso ottimismo, ma ...ciò che è peggio, non ho la benchè più pallida idea di ciò che ci aspetta.

Se chi ha tantissimi capitali perde la fiducia e li toglie dal mercato mi chiedo chi ce li metterà?

Noi, comuni mortali, di capitali da investire non ne abbiamo, e gli stati non hanno più la possibilità di indebitarsi ulteriormente, dato che già oggi si stanno impegnando per restituire parte dei debiti contratti negli anni passati.

Se i cittadini pagano i debiti degli stati sovrani con le tasse, e gli stati sovrani pagano i debiti contratti con le banche centrali, chi farà girare i soldi necessari per finanziare la crescita?

Ai posteri l' ardua sentenza!

Pubblicato da grandeindio su Buone parole (Progetti di Economia Relazionale)


Wall Street Italia

Pioggia di vendite ovunque. Gli investitori scontano - a scoppio ritardato - la notizia del declassamento del rating spagnolo e guardano con timore ora anche alla Cina. Moneta europea ai nuovi minimi di 4 anni: 1.2111.

L'inizio del mese di giugno non sembra portare ai mercati alcun sollievo, stando almeno alla performance che i listini azionari globali riportano in queste ore. La sessione è decisamente negativa per le borse europee e a prevalere, così come è stato in molte delle sedute concitate di maggio, è il sell off. A metà giornata, Piazza Affari vede il Ftse Mib perdere il 3,3%; male anche Londra (-2,22%), Francoforte (-1,90%) e Parigi (-2,35%). Il segno meno non risparmia inoltre Amsterdam (-1,72%) e Bruxelles (-1,34%).

Dopo la pausa di ieri - di fatto si è trattato di pausa, in quanto le borse mondiali hanno preferito optare per l'attendismo, in concomitanza con la chiusura dei mercati di Wall Street e di Londra - i mercati europei hanno reagito così oggi alle ultime notizie arrivate nelle ultime ore (ma non solo).

La notizia del declassamento del rating della Spagna da parte dell'agenzia Fitch era arrivata infatti lo scorso fine settimana. Ma la reazione vera e propria sembra manifestarsi oggi: la pioggia di vendite si abbatte ovunque, il che lascia pensare che la bocciatura del rating spagnolo non sia stata ancora digerita. Ad affossare il sentiment c'è poi dell'altro: tornano a rinnovarsi infatti anche i timori sul caso Cina.

Gli interrogativi sono infiniti: esiste davvero il rischio di una bolla? E cosa faranno le autorità di Pechino per scongiurare la minaccia di un'inflazione? Si avrà un rallentamento della congiuntura cinese, al momento uno dei pochi fattori di traino della crescita mondiale? E quale sarà in questo caso l'effetto sulla economia mondiale?

Queste e altre domande si affastellano nelle menti degli operatori, delusi per la contrazione che l'indice Pmi - che misura la performance dell'attività manifatturiera della Cina - ha subito un calo a maggio.

E a essere preoccupato è lo stesso economista, docente della New York University Nouriel Roubini; riferendosi al caso Cina, ma non solo - l'alert riguarda infatti i paesi emergenti Bric - l'esperto ha infatti avvertito sui rischi di un surriscaldamento dell'economia.

Intanto l'euro torna a essere attaccato dalle vendite, e crolla ai minimi da quattro anni sul dollaro, a quota 1.2111, scontando anche la notizia delle dimissioni a sorpresa del Presidente tedesco Horst Koehler. Come se non bastasse la spada di Damocle dei debiti, ora il Vecchio Continente è preda anche di nuove tensioni geopolitiche.

Il sentiment negativo presente sui mercati è confermato anche dalla caduta libera il petrolio, che si riporta a 73 dollari al barile, accusando l'impatto di un indebolimento della congiuntura in Asia. Sulle borse europee, a livello settoriale si segnala la pessima performance dei petroliferi, in scia alla pessima performance di BP sugli insuccessi nel Golfo del Messico.

Male anche gli altri settori legati alle commodities, come i minerari che sono il secondo peggior comparto sulle piazze europee. Tengono meglio i difensivi, come i farmaceutici ed i titoli legati allo svago ed al tempo libero.
 

Antonio Azzaretto

Membro dello Staff
212.807.628 milioni di dollari creati come bollicine

Cari amici,

Le risorse finanziarie mondiali pesano addosso all' economia reale, che resta strozzata nei debiti.

Ci sono sapienti economisti che tentano di spiegarci le cosiddette "ricette" economiche per uscire dalla crisi.

C' è chi impone fardelli ai governi per diminuire e ristrutturare i debiti pubblici.

C' è chi propone di stampare un' po' di moneta al di qua e al di là dell' oceano per alimentare l' inflazione e far ripartire l' economia.

Insomma si dice di tutto, tranne che guardare la realtà, ....ossia che ormai la finanza ci sovrasta e si autoalimenta con numeri creati da numeri, che viaggiano in aria come bollicine.

Negli Stati Uniti, ad esempio, nel 2009 il valore nozionale dei contratti derivati scambiati dai 25 gruppi finanziari più importanti ha raggiunto, al 31 dicembre, 212.807.628 milioni di dollari.

Mi chiedo che succederebbe se questo castello di carte cadesse, e soprattutto c' è da domandarsi che relazione abbia questa creazione di valore con le deprimenti condizioni dell' economia americana.

A me sembra di capire che si è formato un tappo tra l' economia reale e l' economia finanziaria che ormai soffoca ogni forma di contatto.

C' è la possibilità realistica che il costo del denaro in futuro si appiattisca su valori bassissimi, perchè se non sono ancora saliti a tutt' oggi, non vedo che cosa potrebbe succedere di più grave per far salire i tassi di interesse.

Anche in questa situazione di basso costo del denaro, tuttavia, ottenere prestiti diventerà sempre più difficile, perchè il nostro mercato "reale" alle banche interessa sempre di meno: "Lorsignori" preferiscono creare valore finanziario autoalimentato da sistemi di scambio che creano utili nell' aria, ....come bollicine!

Pubblicato sabato, giugno 05, 2010 su Buone parole (Progetti di Economia Relazionale)


Il sole 24 ore

Sul sito del Comptroller of the Currency Administrator of National Banks è possibile leggere il report dell'ultimo trimestre del 2009 - ma riassuntivo anche dell'intero esercizio - sul mondo dei derivati negli Stati Uniti. I numeri sono, come sempre quando si parta di derivati, impressionanti. Nel 2009 il valore nozionale dei contratti scambiati dai 25 gruppi finanziari più importanti ha raggiunto, al 31 dicembre, 212.807.628 milioni di dollari. Una cifra impressionante.

L'oligopolio delle big five
Di questo enorme business la gestione, di fatto, è nelle mani di sole 5 grandi banche americane: Jp Morgan (78.545.384 milioni di noazionale in derivati intermediati); Bank of America (44.315.928 milioni di dollari); Goldman Sachs (41.595.932 milioni); Citibank (37.546.159 milioni) e Wells Fargo (4.178.720 milioni). L'agenzia americana sottolinea che «sebbene una simile concentrazione crei preoccupazione in chi deve controllare il mercato, esistono alcune situazione che "mitigano" i timori. La prima è che ci sono altri operatori, diversi dalle banche commerciali, attive nel business dei derivati e quindi» l'oligopolio non è poi così forte; la seconda, a ben vedere più una causa di fatto della situazione che una "rassicurazione, «è che operare con simili prodotti richiede competenze e tecnologie sofisticate presenti solo nelle grandi istituzioni; la terza è che il controllo è comunque molto approfondito». Anche in quest'ultimo caso, a ben ragionare, siamo di fronte più ad una "mozione di intenti" che ad una concreta e seria motivazione, in grado di ridurre i timori rispetto ad un mercato troppo concentrato. E che, come più volte ribadito da diversi esperti, pone un altro serio problema: quello degli scambio sui mercati Over the counter (Otc).

I mercati Over the counter
Analizzando i numeri del report, salta fuori che il 95% degli scambi avviene proprio sugli Otc. Si tratta, com è noto, di piattaforme poco trasparenti che non prevedono una clearing house, una stanza di compensazione. Il rischio è che, nell'ipotesi malaugurata dell'insolvenza di uno dei pochi attori in gioco, possa darsi vita -visto il valore altissimo intermediato- ad un rischio sistemico.

I ricavi da trading
L'analisi indica anche come stanno andanto i ricavi delle banche realizzati con il trading sui derivati. Ebbene, nel quarto trimestre le revenues sono diminuite del 66% rispetto ai 5,7 miliardi del terzo trimestre. Si tratta di un andamento normale, visto che nell'ultima parte dell'anno l'operatività diminuisce sempre. Ben più rilevante è il valore sull'intero esercizio: qui i ricavi da trading hanno raggiunto il valore di 22,6 miliardi di dollari, a fronte della perdita di 836 milioni del 2008. Il numero del 2009 rappresenta «un record -scrive l'agenzia americana-, superando il precedente massimo del 2006 che ammontava a 18,8 miliardi di dollari. Nonostante la volatità stagionale, i margini d'intermediazione più cari, la forte domanda della clientela e le condizioni dei mercati hanno permesso di raggiungere il nuovo record».

Ma con quale specifica attività di trading le banche hanno fatto più ricavi?
La parte del leone è ad appanaggio degli Interest rate (che ricomprendo, per esempio, gli Interest rate swap) con 14,4 miliardi di dollari in intermedizione e una crescita del 13,6% rispetto al 2008; a ruota seguono i contratti Foreign Exchange, con 5,6 miliardi: in questa caso, però, rispetto all'anno scorso siamo di fronte ad un calo del 51 per cento. Poi, vengono i prodotti sull'equity (1,06 miliardi) e sulle Commodity (1,4 miliardi). Infine quelli su crediti con soli 6 milioni.

Insomma, le banche fanno affari scambiando e vendendo titoli. E per il finanziamento alle imprese? Cè, ovviamente, anche quello ma perché affannarsi troppo, dicono i maligni: finché c'è il derivato la speranza va a leva....
 

Antonio Azzaretto

Membro dello Staff
La dittatura delle banche centrali

Cari amici,

Gli "illuminati" economisti di tutto il mondo stanno passando gli ultimi mesi arrovellandosi su una domanda:

Che succederà dopo la crisi?

Vi è infatti una questione di fondo che rimane irrisolta, e che pochi percepiscono:

Durante l' ultima crisi le banche centrali hanno mostrato il loro vero volto, praticando una politica attiva e incisiva diretta ad evitare il collasso dell' economia e della finanza globale.

In altre parole si può dire che le banche centrali di tutto il mondo si sono messe al timone dell' economia, e di loro iniziativa hanno salvato le banche e le istituzioni finanziarie che erano al collasso e stavano per diventare dichiaratamente insolventi.

In pratica, quasi tutti sono stati salvati: I buoni e i cattivi, chi speculava e chi cercava di essere onesto; il tutto senza curarsi di chiedere il permesso ai governi, che si sono trovati costretti a pagare il conto, tramite il disavanzo pubblico.

Non è una questione di poco conto, perchè da questi fatti che sono accaduti nasce prepotentemente una domanda:

Perchè mai un finanziere dovrebbe stare attento e caricarsi di rischi "calcolati" quando ormai è consapevole che, in caso si arrivi di nuovo a nuotare nell' acqua alta, mamma banca centrale arriva e lo salva?

E poi c' è la questione sovrastante: Perchè le banche centrali hanno tutto questo incontrastato potere di governare l' economia del mondo?

Che cosa rimane da governare alla cosiddetta "politica nazionale" se poi le decisioni importanti vengono prese in altri contesti, da altre persone, secondo altre logiche di potere?

Negli ultimi anni abbiamo visto quanto siamo impotenti di fronte al potere di pochissimi individui che governano la finanza mondiale al di fuori di ogni controllo politico.

....e oggi siamo pure costretti a "pagare il conto"!

Pubblicato oggi su Buone parole (Progetti di Economia Relazionale)


Il sole 24 ore

Mentre i governi europei fanno quasi a gara nel mettere in campo manovre di correzione dei conti pubblici tagliando le spese, trova sempre più spazio nel dibattito tra gli economisti la paura di un nuovo 'tuffo' dell'economia globale, una recessione "a doppia V", che non riesce a consolidare i segnali di crescita emersi negli ultimi trimestri e, anzi, torna a guardare verso il basso. Nel dibattito si confrontano posizioni diverse soprattutto sulle cause che potrebbero innescare un nuovo tratto in discesa nel grafico del Pil. Ma la preoccupazione è crescente, come ha messo in luce anche la "Lettera degli economisti" preoccupati degli effetti recessivi della manovra italiana.

Ne parlano, da due punti di vista completamente diversi, Nouriel Roubini della New York University, e Simon Johnson, ex capo economista del Fondo monetario internazionale e oggi docente di sviluppo imprenditoriale al Mit Sloan School of management.
Roubini dà una ricetta in otto punti per evitare la 'double-dip' della recessione globale e imperniata su un profondo coordinamento internazionale. Un percorso in delicato equilibrio tra la necessità di risanare i bilanci per i paesi "spendaccioni" e l'obbligo quasi morale per i paesi come Germania, Cina e Giappone con bilanci in attivo di continuare a mantenere le misure di stimolo all'economia. Esattamente il contrario di quanto ha appena fatto la Germania, che «invece di partire con un piano di austerità mal congegnato, dovrebbe estendere gli incentivi a tutto 2011».
Preoccupato della "prossima crisi" è anche Johnson che sembra rispondere a chi, come Roubini, guarda solo al debito sovrano e all'economia reale. Il professore della Mit Sloan School è convinto che le radici della prossima crisi siano nella mancata regolamentazione del settore finanziario americano, di cui ha messo a nudo le responsabilità nella prima fase della recessione nel best seller «13 Bankers: The Wall Street Takeover and the Next Financial Meltdown» scritto a quattro mani con James Kwak.

«Che l'economia mondiale viva adesso una crescita del 4 o del 5 per cento è sicuramente importante, ma non influisce più di tanto sulle nostre prospettive a medio termine. Il settore finanziario statunitense ha ricevuto un sostegno salvifico e non soggetto a condizione alcuna, ma adesso non è soggetto ad alcuna forma di ri-regolamentazione significativa. Pertanto, non si discute: ci stiamo preparando - afferma Johnson - a un altro boom che ha i suoi presupposti nell'eccessiva e sconsiderata assunzione di rischio nel cuore stesso del sistema finanziario mondiale. E ciò non può che finire in un modo solo: male».

All'Europa guarda Dani Rodrik, docente di economia politica alla John F. Kennedy School of Government della Harvard University. E se la prende soprattutto con la Germania, colpevole non solo di «non fare la sua parte come economia più grande della Ue e suo leader putativo» ma anche di fare una politica estremamante aggressiva e individualista, «calpestando le economie degli altri Stati membri». Se Berlino vuole «che il resto d'Europa ingoi la pillola amara dei tagli di spesa - scrive Rodrik su Project syndicate - si dovrà impegnare a spiengere i consumi domestici, ridurre il surplus con l'estero e accettare un aumento dei target di inflazione della Bce. Prima la Germania farà la sua parte, meglio sarà per tutti».
Meno preoccupato, «grazie ai segnali che arrivano dalle imprese» è Lorenzo Stanca, presidente del Gruppo economisti d'impresa e managing partner di Mandarin Fund. «Dalle imprese con cui siamo in contatto ogni giorno riceviamo segnali di una tendenza netta verso la ripresa economica. L'export si è mosso in modo positivo dall'inizio dell'anno e ha accelerato negli ultimi due mesi. Il rischio di politiche restrittive tedesche esiste ma è compensato dal deprezzamento dell'euro. Il dubbio che il timing della manovra del governo tedesco non sia corretto esiste, ma non bisogna sovrastimarne gli effetti». Nessun rischio di 'doppia V', dunque? Non proprio: «Il rischio c'è ed è legato alla tenuta di paesi come Cina, India e Brasile le cui economie sono cresciute a ritmi sostenuti. In particolare in Cina torna di tanto in tanto il timore che si sgonfi la bolla immobiliare». Quanto alla Germania, «vuole essere nella posizione di chi può dare l'esempio e avere sempre più peso nella Ue. È una linea comprensibile, ma non condivisibile». Infine la finanza americana senza regole: «In genere non credo ai complotti, ma davanti alla pressione delle istituzioni finanziarie nei confronti dei paesi più vulnerabili qualche dubbio è legittimo: c'è qualcuno che vuole distrarre l'attenzione?».
Per Riccardo Realfonzo, uno dei firmatari della "Lettera degli economisti" e direttore del Dipartimento di Analisi dei sistemi economici e sociali dell'università del Sannio, «in Europa la crisi mondiale trova alimento nei vistosi squilibri tra i saldi delle bilance commerciali. Il deteriorarsi delle condizioni della finanza pubblica nei paesi periferici dell'Unione monetaria è in buona misura l'effetto dei loro saldi passivi con l'estero. In questo contesto, le politiche restrittive praticate dai paesi in attivo nella bilancia commerciale, Germania in testa, aggravano la posizione debitoria dei paesi periferici, Italia inclusa. A nulla valgono le politiche di austerità che questi ultimi possono intraprendere, se non a ridurre ancora il tasso di crescita del Pil, a contrarre le entrate fiscali e ad aggravare la crisi». I tagli, quindi, non solo non servono, ma sono anche dannosi? «É così. Occorrono provvedimenti per bloccare la speculazione ed è necessario che i paesi in avanzo commerciale pratichino politiche espansive. Inoltre, l'Europa dovrebbe essa stessa farsi locomotiva della crescita, promuovendo un piano di sviluppo finanziato da un più consistente bilancio dell'Unione. Persistere con le politiche restrittive potrebbe condurci alla deflagrazione della zona euro».
 

Antonio Azzaretto

Membro dello Staff
Il declino del dollaro


Alla fine degli anni cinquanta gli Stati Uniti erano all' apice del proprio potere; vantavano un avanzo corrente e il dollaro fungeva da valuta di riserva internazionale.

In base al famoso Accordo di Bretton Woods, firmato poco prima della fine della seconda guerra mondiale, altri paesi mantenevano un tasso di cambio fisso tra le proprie valute e il dollaro, e gli Stati Uniti si impegnavano a mantenere la convertibilità del dollaro in oro.

Molti economisti del tempo - in particolare quelli americani - erano favorevoli a questo accordo, ma Robert Triffin, un economista di origine belga, la pensava diversamente.

Nel 1960 si disse contrario all' idea che una valuta nazionale fungesse anche da valuta di riserva internazionale; un sistema di questo tipo, a suo avviso, conteneva i germi della propria distruzione.

Triffin osservò che le nazioni che emettono valuta di riserva - la Gran Bretagna nel Diciannovesimo secolo, gli Stati Uniti nel ventesimo - generalmente presentano un surplus corrente; nel caso degli Stati Uniti, questo significava che l' afflusso di dollari verso il paese era superiore al deflusso.

Fin quì tutto bene.

Ma Triffin evidenziò che gli altri paesi dovevano detenere la valuta di riserva; perciò la domanda di dollari avrebbe creato una forza di segno opposto, che avrebbe provocato un deflusso di dollari dagli Stati Uniti.

Secondo Triffin tali pressioni avrebbero presto o tardi generato un disavanzo corrente, che avrebbe finito per pregiudicare la posizione economica degli Stati Uniti e, di conseguenza, del dollaro.

Questo è precisamente ciò che accadde nel 1971, quando il presidente Nixon sospese la convertibilità in oro.

Il dilemma di Triffin è rilevante ancora oggi.

Il dollaro non è più convertibile in oro, ma rimane a tutti gli effetti la valuta di riserva internazionale, sebbene quella domanda contribuisca ad aggravare gli squilibri globali.

Alcuni economisti sostengono che questo accordo - il cosiddetto "Sistema di Bretton Woods II" - possa persistere ancora per qualche tempo, con i dollari che defluiscono dagli Stati Uniti e si accumulano nei caveau delle banche centrali dell' Asia e del Medio Oriente.

In realtà, questo accordo precario mostra forti segnali di tensione.

Nel 2001 i dollari rappresentavano poco più del 70 per cento delle riserve detenute all' estero; nel decennio successivo, in conseguenza dell' aumento incontrollato del disavanzo di bilancio e del deficit corrente statunitensi, quella percentuale è diminuita, raggiungendo il 63 per cento nel 2008.

Nella seconda metà del 2009 le banche centrali straniere hanno mostrato un' avversione ancora più pronunciata verso il dollaro e una spiccata preferenza per l' euro e lo yen, al punto che nel terzo trimestre di quell' anno soltanto il 37 per cento delle riserve di nuova acquisizione era denominato in dollari - un dato lontanissimo dalla media del 67 per cento registrata un decennio prima.

Una percentuale crescente di queste riserve è costituita invece da oro e persino da alcune valute di paesi emergenti.

La crescente propensione alla diversificazione e all' abbandono del dollaro è particolarmente evidente nei fondi patrimoniali sovrani.

Questi fondi d' investimento di proprietà statale - organizzazioni come China Investment Corporation - hanno cominciato a evitare i buoni del tesoro statunitensi che facevano la parte del leone nelle riserve delle banche centrali, concentrandosi invece su investimenti ad alto rendimento, dagli Hedge fund ai diritti minerari.

Questa tendenza probabilmente continuerà negli anni a venire.

Se siamo fortunati sarà un processo graduale, e non un crollo improvviso e tumultuoso.

In effetti è possibile che gli Stati Uniti seguano le orme della Gran Bretagna, che vide declinare il proprio potere (e la propria valuta) nell' arco di molti decenni.

Infatti, malgrado gli Stati Uniti avessero superato la Gran Bretagna diventando la maggiore economia mondiale attorno al 1872, la sterlina britannica rimase la principale valuta mondiale per altre due generazioni.

Fu soltanto con la Prima guerra mondiale, quando la Gran Bretagna smise di essere un creditore netto e divenne un debitore netto, che la sterlina cominciò a perdere seriamente terreno e gli altri paesi presero a diversificare le proprie riserve valutarie, benchè nel 1928 il rapporto tra sterline e dollari nelle riserve mondiali fosse ancora di due a uno.

Il dollaro destituì la sterlina soltanto nel 1931, quando la Gran Bretagna abbandonò il sistema aureo.

Gli accordi di Bretton Woods contribuirono a cementare la supremazia del dollaro, anche se la valuta statunitense divenne la valuta di riserva mondiale per eccellenza soltanto dopo la Crisi di Suez del 1956, che determinò un ulteriore crollo della sterlina.

La decadenza della valuta britannica si è dipanata per tre quarti di secolo, e non è irragionevole sperare che anche il declino del dollaro proceda altrettanto lentamente.

Ma questa sorta di analogia storica non può essere presa troppo alla lettera.

La Cina, che occupa pressochè la stessa posizione in cui si trovavano gli Stati Uniti un secolo fa, sta ascendendo la scala economica mondiale molto più rapidamente di qualsiasi altra nazione nella storia; probabilmente supererà il Giappone diventando la seconda economia mondiale già nel 2010 o 2011, ed è possibile che scalzi gli Stati Uniti dal primo posto in tempi relativamente brevi.

Tutto questo accade a una velocità sbalorditiva.

A differenza degli Stati Uniti, la cui ascesa al potere ha richiesto un secolo, la Cina è riuscita a trasformarsi da paese di secondaria importanza a potenza globale in appena vent' anni.

Si pone così l' inquietante possibilità che la supremazia del dollaro abbia ormai gli anni - e non i decenni - contati.

E' difficile immaginare come potrebbe svolgersi un declino così brusco e tumultuoso.

In passato le valute avevano qualcue relazione con l' oro o l' argento; questo legame è stato spezzato del tutto soltanto negli anni settanta.

Oggi il sistema monetario internazionale poggia su una valuta a corso forzoso: una valuta che non ha valore intrinseco e non è sostenuta da metalli preziosi, e il cui valore non è fissato in alcun modo.

In un certo senso il dollaro occupa attualmente il ruolo ricoperto a suo tempo dall' oro; un suo crollo avrebbe oggi lo stesso effetto che si sarebbe prodotto se i reggenti e i banchieri dei secoli passati, nell' aprire i forzieri, avessero scoperto che le loro preziose monete si erano trasformate in polvere.

Un tale scenario potrebbe un giorno realizzarsi se gli Stati Uniti continueranno a generare disavanzi esplosivi.

La Cina probabilmente continuerà ad acquistare debito Usa, ma altri paesi più piccoli potrebbero cominciare a muoversi lentamente verso l' uscita.

Questo potrebbe provocare un fuggi fuggi generale al quale neppure la Cina potrebbe sottrarsi.

Quali che siano i vantaggi dell' attuale sistema per quest' ultima, a un certo punto i costi potrebbero superare i benefici.

Gli Stati Uniti si trovano a un bivio.

Se non rimettono ordine nei conti pubblici e non aumentano i risparmi privati, la probabilità di un evento sismico di questa portata non potrà che aumentare.

E' fin troppo facile immaginare uno scenario in cui questo potrebbe verificarsi, particolarmente se nei prossimi anni si arrivasse ad una situazione di stallo politico.

I repubblicani metterebbero il veto a un aumento delle imposte, i democratici si opporrebbero ai tagli della spesa.

La monetizzazione del deficit, ottenuta stampando moneta, diventerebbe la via di minor resistenza.

L' inflazione così generata avrebbe l' effetto di erodere il valore del debito pubblico e privato detenuto nel mondo.

Gravati da questa "imposta da inflazione", gli investitori di tutto il mondo sarebbero portati a disfarsi dei dollari e ad acquistare la valuta di un paese con una migliore reputazione di responsabilità fiscale.

Se ciò accadesse, gli Stati Uniti ne pagherebbero le conseguenze.

Finora siamo riusciti ad emettere debito nella nostra valuta anzichè in quella di altri paesi, trasferendo sui nostri creditori il costo di una perdita di valore del dollaro.

Se altri paesi ci negassero improvvisamente questo "esorbitante privilegio", l' onere ricadrebbe su di noi e i costi dell' indebitamento aumenterebbero bruscamente, trascinando in basso il consumo, l' investimento e, in ultima analisi, la crescita economica.

I prezzi di tutte le importazioni - dai giocattoli di plastica da due soldi provenienti dalla Cina ai barili di petrolio dell' Arabia Saudita - aumenterebbero, pregiudicando uno stile di vita che gli americani considerano ormai un diritto di nascita.

In questo processo il dollaro diventerebbe soltanto un' altra valuta tra tante.


 

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